Giuseppe Tesauro: «Una vita con gli studenti senza mai mettere diciotto»

Giuseppe Tesauro 
Socio onorario CeSAF Giuseppe Tesauro Socio onorario CeSAF
di Maria Chiara Aulisio

Lo chiamano tutti Beppi, con due p. Il risultato di un giusto compromesso tra la madre e il suo padrino di battesimo. La prima nata in Lettonia, il secondo a Venezia. In culla Giuseppe Tesauro, classe ’42, quello che da grande sarebbe diventato uno dei massimi esperti italiani di diritto comunitario, chiamato alla ribalta nel 1998 quando Luciano Violante e Nicola Mancino lo nominarono presidente dell’Antitrust, interrompendo il suo secondo mandato come avvocato generale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Capelli bianchi e baffi (quasi) bianchi, spiccato senso dell’umorismo e grande garbo, Beppi con due p, fama di uomo rigoroso e inflessibile, nel 2005 sarà nominato giudice della Corte costituzionale e, successivamente, presidente della Consulta. Nel mezzo, bene attento a tenersi alla larga dal variegato mondo della politica, una lunga carriera universitaria vissuta con passione negli atenei di mezza Italia: da Napoli a Messina, da Roma a Catania.

Beppi con due p.
«Una via di mezzo».Tra che?
«Giuseppe e Bepi».

Bepi?
«A farmi da padrino fu un amico veneziano dei miei genitori. Giuseppe non gli piaceva, aveva deciso che dovevano chiamarmi Bepi, gli ricordava i gondolieri della laguna. Ma a mia madre quel nome non andava giù».

Perché?
«Le sembrava poco virile».

Poco virile?
«Diceva che era più adatto a un gay. Nell’incertezza che non lo fossi…».

Con due p invece era più macho?
«Lei pensava così. Mamma era straniera, aveva un modo di parlare tutto suo».

Che cosa faceva qui a Napoli?
«Studiava, poi ha messo su famiglia».

È la mamma che le ha trasmesso la passione per lo studio?
«A me è sempre piaciuto leggere, sapere, imparare… Una delle ragioni per cui ho amato molto l’università. Insegnare è stata una delle mie grandi passioni».

Che rapporto aveva con i suoi studenti?
«Di grande rispetto. Il professore non deve mai dimenticare che la ragione della sua esistenza è lo studente».

Addirittura?
«Ai miei assistenti dicevo sempre che noi esistevamo perché c’erano loro, i ragazzi. Dunque, non tolleravo alcun tipo di sgarbo o prevaricazione. Anche quando non avevano studiato».

Giusto.
«Perché essere irriguardosi? Se non rispondono alle domande li bocci e basta. Anzi, li esorti a impegnarsi di più e meglio».

Nessuna ramanzina, insomma.
«Ci mancherebbe. Non si capisce perché un ragazzo impreparato debba essere insolentito. Non l’ho mai fatto e non ho mai permesso a nessuno di farlo. Almeno in mia presenza. E chiaro che ho sempre preteso che gli studenti fossero altrettanto seri e rispettosi nei confronti del corpo docente».

Perché non lo erano?
«Non sempre e non tutti».

Un esempio.
«Quando d’estate arrivavano in bermuda all’esame diventavo terribile».

Conferma la sua fama?
«Quale?»

Di prof terribile.
«No. Non ho mai regalato gli esami ma non credo di essere mai stato particolarmente cattivo. Anzi».

Anzi che cosa?
«Mai fatto una domanda trabocchetto. Le ho sempre detestate anche da studente. Trovo insopportabile mettere alla prova i ragazzi traendoli in inganno. Se hanno studiato o no lo capisci dopo una domanda».

Una sola domanda è sufficiente per stabilire la preparazione di uno studente?
Ti consente certamente di valutarne l’orientamento. A me bastava poco per stabilire, ad esempio, se aveva imparato a memoria o se invece era entrato nella materia grazie a un buon metodo di studio. Che poi è quello che dovrebbe fare l’Università: orientare i giovani allo studio e spiegare come si fa».

Invece non accade?
«Il problema è che spesso sono talmente tanti che non si riesce a seguirli nel giusto modo. La scuola per diplomatico della SIOI, che ha sede a Castelcapuano, difficilmente ne accetta più di 25. Allora sì che puoi davvero dedicarti a ciascuno di loro come si deve».

Una curiosità. A quelli con i bermuda che voto dava?
«Il voto che meritavano. Ma dovevano trovare un paio di pantaloni da indossare altrimenti non li facevo neanche sedere».

I pantaloni? E dove andavano a prenderli?
«Una volta a uno di loro glieli feci prestare dal bidello».

Dal bidello?
«Una provocazione, è chiaro. Con un nobile obiettivo».

Quale?
«Fare capire ai ragazzi che l’università è una cosa seria e che i professori, ma anche i compagni studenti, meritano rispetto. Il modo di presentarsi è importante: non puoi sostenere un esame vestito come se andassi in spiaggia. No, non l’ho mai consentito. Stesso discorso per le donne».

Bermuda anche per loro? 
«Non ho mai apprezzato look particolarmente succinti scelti con il chiaro intento di attirare l’attenzione. Un atteggiamento che ho sempre giudicato oltremodo offensivo».

È vero che voi professori andate a simpatie e antipatie?
«Falso».

Tutti uguali, gli studenti?
«Dal punto di vista della valutazione sì. Ma è fatale che con alcuni si stabilisca un feeling migliore, è umano. Ciò non toglie che il giorno dell’esame sono tutti uguali».

Ha insegnato a Napoli, a Roma e in Sicilia. Dove ha trovato gli studenti migliori?
«Direi piuttosto tipologie diverse».

Si spieghi meglio.
«Lo studente napoletano ancor prima di sedersi ti dice che non si sente bene, la zia sta morendo, il cugino ha avuto un incidente gravissimo…».

Comincia a trovare scuse.
«Esatto, poi magari ti accorgi che è ben preparato ma qualche cosa la deve dire per forza».

Il romano?
Il più sfrontato di tutti. Quello che si presenta in bermuda e infradito per intenderci».

E il siciliano?
«Forse il più serio. Rigoroso e compassato. Devo ammettere che, al netto della zia malata, lo studente napoletano è il migliore, più scaltro e veloce degli altri».

Lo sa che aveva fama di essere tra quelli che bocciava di più?
«No. E comunque non è vero».

Lo raccontano i suoi ex studenti.
«Sarà perché se andavano da 17 non mettevo 18. Ma li invitavo a tornare dopo aver studiato meglio». 

Li bocciava.
«Certo».

Quindi ci troviamo?
«No. Perché allora dovrei dirvi che non mettevo mai neanche 29».

Nemmeno 29?
«Direttamente trenta. 29 è una cattiveria. Ho sempre cercato di andare incontro alle esigenze dei ragazzi, non mi sono mai irrigidito. Questa è la ragione per cui con loro ho sempre avuto un rapporto estremamente appagante. Ogni volta che mi è stato chiesto di tenere qualche lezione extra, fosse pure all’università di Roccacannuccia, l’ho sempre fatto molto volentieri».

Grande entusiasmo.
«Lo stesso che avevo anche quando ho lavorato all’Antitrust dove c’era un gruppo di ragazzi molto affiatato e promettente. Insieme tirammo fuori sentenze straordinarie. Idem alla Corte costituzionale. Anche qui ho avuto giovani collaboratori particolarmente abili».

Belle esperienze.
«Certo. Ma il mio cuore è sempre stato in facoltà. Quando ero in Lussemburgo la Corte di Giustizia mi mandava a tenere lezioni nelle università della Francia, del Belgio, perfino in Argentina. Ricordo quel periodo con grande entusiasmo. E tanta libertà».

Libertà?
«Non esiste persona più libera di chi insegna. Non devi rendere conto a nessuno se non ai tuoi studenti. Tutto quello che fai e che dici è solo nel loro interesse. Il problema vero è l’università italiana».

Perché?
«Non stimola i giovani, non investe nella ricerca e quindi sul loro futuro. Guardate la Germania, non ha mai tagliato un soldo. Qui in Italia non facciamo un concorso da anni, che chances offriamo a quei ragazzi che avrebbero voglia di rimanere all’università?».

Molto poche.
«Appunto. Eppure ci ho creduto. Nell’università e nell’Europa. Ricordo che il mio maestro Rolando Quadri mi diceva sempre: adesso la smantellano ’sta Europa. A me il tema interessava talmente tanto che cominciai a occuparmi di diritto europeo».

Crede ancora nell’Europa?
«Certo che sì. Quella reale, però. Non quella che viene raccontata sui giornali. La verità è che Europa è una parola sexy che tutti usano ma nessuno sa davvero cosa sia. Forse l’Europa che non c’è ancora, quella politica che dovrebbe accompagnare la moneta unica, manca a tal punto da provocare una caduta di smalto dell’Europa che c’è, quella della circolazione e dei diritti della persona in quanto tale, che non era male almeno fino a qualche anno fa. E che sarebbe bene ce la tenessimo stretta».

Ultima domanda. Quante raccomandazioni ha ricevuto nella sua carriera?
«Se non fosse stato per Castiglia, neanche tantissime».

Castiglia?
«Il capo bidello dei miei tempi, altro che preside. Non c’era seduta d’esame che non mi raccomandasse un nipote. Un giorno glielo dissi: “Castiglia, ma quanti nipoti tieni?”».

Che cosa le rispose?
«“Assai, professò, assai…”».

da Il Mattino  del 31 luglio 2015

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