Michele se n’è andato. Il senso della vita

In Carcere abbiamo parlato anche del “Caporalato” e dei gravi lutti di questi giorni. I ragazzi travolti e uccisi in quel furgone prendevano tre euro all’ora. Come qui in carcere mi hanno detto. Lo stesso, tre euro all’ora. Solo che là fuori per lavarsi, mi ricordava ancora Lucio, devono “comprare” l’acqua, e per un bidone ci vuole almeno un euro.

di Giuseppe Ferraro .

Michele, mi hanno detto che se n’è andato. L’hanno trovato in cella. Se ne è andato in silenzio. Lo ricorderò sempre con il suo silenzio. “Zio Michele”, lo chiamavano così. Era di Palma Campania. Non so perché fosse finito in prigione. Non lo chiedo mai e non voglio saperlo. Sono più di dieci anni da quando l’ho conosciuto, la prima volta a Bellizzi. Sempre in disparte. Sembrava non volesse interessarsi dei nostri incontri, ma era sempre presente. In silenzio. Aveva l’aria di chi riceveva il massimo rispetto. Lo chiamavano così, “zio Michele”, con aria bonaria. Un giorno mi sedette a fianco, non ancora cominciavamo a disporci in quel cerchio di voci. Ci ritrovammo seduti al tavolo. Mi disse che l’avidità dei parenti è causa di tutti i mali, di quelli peggiori. Nella famiglia si è ingordi quando si tratta di eredità. Pensai dovesse essere stata questa anche la causa del suo male. Di nuovo il suo silenzio. Zio Michele era persona semplice. Il silenzio, ancora di più in carcere, è insidioso. Chi non parla o la fa per nascondere qualcosa o semplicemente non ha parola, pensa, riflette, segue, ascolta. I bambini piccoli prima di cominciare a parlare restano in silenzio, prendono la rincorsa, cominciano, credo, a parlarsi dentro. Michele stava sempre in disparte e in silenzio. Era una persona semplice, mite. Un giorno che stavamo appena per iniziare, si avvicina al nostro cerchio di voci e, restando sul bordo, prende la parola per dire in tono pacato e deciso “io sarei potuto diventare come lui”, indicandomi. “Sarei potuto diventare come lui, se lo avessi incontrato prima”.

Cominciò poi a fare l’elogio della legalità. Parlò del figlio che studiava. Penso che quel “sarei potuto diventare come lui” lo dicesse pensando proprio al figlio ed era l’augurio che faceva a se stesso perché il figlio fosse in quel “diventare”. Da allora i nostri incontri cominciarono con il prologo sulla legalità che Michele teneva ogni volta. Arrivavo, come sempre, senza aver fatto colazione e a un certo punto sentivo la necessità di prendere qualcosa. In carcere ci sono sempre le caramelle. Le hanno tutti. In carcere le caramelle significano il bisogno di dolcezza. Le migliori caramelle, le più dolci, sono le “rossane”.

Michele mi dava sempre le sue le caramelle. È stato così a Carinola ed ancora è stato così a Sulmona. Appena arrivavo, mi avvicinava e salutandomi mi dava le “rossane”. Ricordo poi quel giorno, a Bellizzi, dove c’era chi nella sua superficialità si lasciava andare a frasi inopportune, tra lo svagato e l’irridente. Io non sono una persona facile, tutt’altro. Mi ritrovai le mani di Michele sulle spalle. Ero seduto. Lui arrivò da dietro e mi tenne le mani sulle spalle con quella leggera pressione che significava tante cose, la sua vicinanza, la sua protezione. Conservo un ricordo di Michele come persona semplice, mite, tranquilla, dovrà essere stato anche furioso in certi momenti, come accade sempre a persone come lui e come certo gli sarà accaduto un giorno che lo ha portato fino all’ultima cella.
Siamo in cerchio, tutti intorno al tavolo, nella stanza della biblioteca. Mi hanno detto di Michele. Non so quanti anni avesse, tanti. Mi è dispiaciuto.
Abbiamo parlato della storia della democrazia, di come sia fondata sul dubbio. Chi ha solo certezze, non crede, non chiede, non condivide. Abbiamo parlato di nuovo della Tragedia e dell’Etica che hanno accompagnato la Democrazia al suo sorgere. Ne abbiamo parlato perché siamo alla fine della democrazia, in un tempo in cui la democrazia ha smarrito forse il suo fine o è finita. Ho ricordato la “democrazia moderna” venuta con l’evoluzione dell’economia e dell’Illuminismo in Europa.

La democrazia antica era diretta, i rappresentanti dei demoi venivano nominati a sorte, ma solo perché erano pochi i “liberi” che partecipavano della politica. Non c’era certo il suffragio universale, né tutti avevano diritto di partecipare. I “liberi” erano pochi e godevano di una condizione sociale. Quindi lasciamo stare certe suggestioni di nostalgia a mettere fine al Parlamento e ridurla ad una piattaforma on line.
Con Lucio mi sono ritrovato la sera a parlare di Orwel, sulla panchina del Colle che affaccia sul mare. Ascoltavo il suo stupore e la meraviglia, mi ricordava come Orwel facesse riferimento finanche al linguaggio minimo della comunicazione che doveva essere sempre più breve, poche frasi, come per i “post” sui Social, fino a ridursi ad un semplice “sì” e “no”, fino a ridursi al solo “sì” come a un “click”. 
In Carcere abbiamo parlato anche del “Caporalato” e dei gravi lutti di questi giorni. I ragazzi travolti e uccisi in quel furgone prendevano tre euro all’ora. Come qui in carcere mi hanno detto. Lo stesso, tre euro all’ora. Solo che là fuori per lavarsi, mi ricordava ancora Lucio, devono “comprare” l’acqua, e per un bidone ci vuole almeno un euro. Ditemi allora dove siamo? Ditemi chi è il pericolo, ditemi qual è. Penso che il nemico sia sempre interno, sta dentro, lo si inventa come quello che viene da fuori per non trovarsi allo specchio, per combatterlo, farlo vedere, anche per non far capire, perché è quello che ci si fa vedere che non ci fa vedere. Il pericolo è dentro noi stessi, quando non pensiamo più.
Leo mi chiede del senso della vita. Le mani poggiate sul tavolo. La voce pensosa. Qual è il senso della vita? Ed io sbaglio a rispondergli, devo ancora imparare a chiedere prima perché perché quella domanda. Esito appena un momento e dico che il senso della vita è voler bene. C’è chi sorride ed è sul punto di intervenire. Mi dice che lo stava dicendo lui. Ripeto che siamo vita e abbiamo vita, la vita che siamo è impropria, è come quella di ogni vivente. La vita propria è invece quella che abbiamo, le nostre scelte, il mondo che ci costruiamo. La vita che si è ha il solo fine di riprodursi, di generarsi, crescere. La vita che abbiamo è quella di coltivare, di avere cura di quello che è e che diviene. Il senso della vita è voler bene. È il bene. Solo che il bene inciampa sul piacere. Non è che non deve esserci il piacere, ma deve potersi legare al bene, al voler bene. La “gioia”, in fondo, è quando il “bene” e il “piacere” coincidono. Quando invece sono separati, la gioia non c’è, ci sono altre emozioni, un altro gusto. Il senso della vita si misura dal gusto della vita, viene col suo sapore.
La vita impropria, quella che siamo ci viene dall’altro che incontriamo. Solo quando siamo a noi stessi un altro avvertiamo la vita che siamo, se solo riflettiamo sulle somiglianze, sulle nostre mani, sulla voce… La vita viene. Arriva sempre venendoci incontro, venendoci addosso, dentro, e siamo noi stessi che veniamo, giungiamo da qualche parte, arriviamo da qualcuno, apriamo e bussiamo a una porta. Voler bene è dare senso alla vita, è il sapore della gioia di stare insieme. Come adesso in questo momento che siamo qui intorno a questo tavolo adesso. Curioso è che si dica “tavolo” quando si discute e che si chiama invece “tavola” quando s’imbandisce per mangiare insieme. Bisogna allora imbandire le nostre parole.
Leo non voleva sentire quale è il senso della vita, la sua domanda mirava ad altro, mi chiedeva di come quel senso si è smarrito. Mentre ci avviamo lungo quel corridoio di cancelli, mi dice che queste cose che ci diciamo nei nostri incontri, nessuno le pensa più. E non perché non si pensano queste cose, ma perché non si pensa, non ci si dedica. Tutto si dà nella comunicazione di un rancore, di una stizza d’animo, di una parola buttata a caso, di un’emozione che sbriciola i sentimenti. Sono i legami sociali che ci mancano. Quanto più siamo “connessi” più siamo anche separati e “postiamo” ognuno questa separazione solo per esserci. L’affermiamo, quasi a volerci dare un’identità nella provocazione e nel rifiuto dell’altro, nello scherno e nella parola buttata là, facendo così avanzare un’identità comune nel rancore che si solleva come polvere. Il senso comune è la negazione della comunità. L’importante non è essere d’accordo, anzi, importante è essere in accordo, trovare insieme la via della gioia di vivere. 
Credo che ognuno sia come in rivolta contro se stesso. Il rancore è come contro se stessi, contro tutto quello che si è stati e si è creduto, contro un tempo finito, passato, contro tutto ciò che si è stato, contro tutto quanto si è creduto, contro tutti ciò che è stato proprio. Allora il “nemico” diventa l’altro, quale che sia, il “migrante” è chiunque s’incontra. Chiunque ne prende il posto, appena tentenna e prova a dire quello che noi stessi sentiamo dentro di noi e non vogliamo più sentire. Il nemico allora è la vita che viene e che ci sfugge tra le dita, precaria, finisce all’improvviso, ognuno è solo, “trafitto da un raggio di sole”.

Giuseppe Ferraro è professore di Filosofia Morale (Università “Federico II” di Napoli),  tra i più vicini alla nostra associazione.  impegnato nelle carceri, nelle scuole dei luoghi d’eccezione, indirizza il suo impegno alla prospettiva “una città che si fa scuola”, esercitando la filosofia come educazione ai sentimenti ed etica dei legami. Tra le sue pubblicazioni più recenti Filosofia in carcere, La scuola dei sentimenti, L’anima e la voce, Imparare ad amare.

 

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